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13 Marzo 2021

Quando la piazza rinasce come luogo di cura e accoglienza: Confine | Umanità.

Scritto da Redazione Openddb in 

«Nel curargli i piedi alzo lo sguardo verso il ragazzo. In questo spazio tra me e lui scorre una sorta di intimità, che non ha parole: a volte non serve neanche che ci parliamo, ma si crea una sorta di dialogo muto nel quale lui sa che io so. E io so che lui sa».

Parole di Lorena, che a Trieste, in Piazza della Libertà, di fronte alla stazione ferroviaria, ogni sera, si prende cura dei migranti della rotta balcanica. Corpi segnati da traumi e stremati dal lungo cammino. Occhi spaesati. Anime in ansia di futuro e straziate dal vissuto. Esseri umani che sono spesso vittime di violenze e soprusi, non solo nelle terre d’origine, purtroppo anche durante i travagli del viaggio compiuto, come respingimenti, detenzioni, abusi e addirittura torture, testimoniate inequivocabilmente dalle ferite.

A raccontare questo impegno sociale, che diviene manifesto di civiltà, è il documentario Confine | Umanità di Sara Del Dot e Carlotta Marrucci. Oltre a Lorena, i cui modi gentili ed occhi carichi di speranza qualcuno ricorderà anche in Dove Bisogna Stare (di Daniele Gaglianone e Stefano Collizzolli, Ita 2018), ci sono altre voci e presenze significative, come suo marito Gian Andrea, impegnato in strada accanto a lei - che sottolinea come la piazza possa essere un vero luogo di socialità e di vita, intesa come presa di coscienza dell’interdipendenza degli individui, nel contesto di una città divenuta un nonluogo - e la giovane dottoressa Beatrice, cofondatrice del collettivo di medici Strada Si.Cura, che si occupa di prestare cure sanitarie agli “invisibili”, garantendo loro il diritto alla salute.

Gente che compie gesti concreti e confida pensieri capaci di svelare un’energia particolare. Riguardano le motivazioni della scelta di solidarietà, espresse in modo spontaneo e con una naturalezza quasi spiazzante… perché ci ricorda che mettersi a disposizione del prossimo è un atto di libertà, di consapevolezza e di onestà intellettuale.

Prendersi cura degli altri, insomma, può essere un atto rivoluzionario. Di certo lo è nell’ottica di fare cose concrete nel quotidiano, atti che ribaltano la prospettiva sulla vita di chi si mette in gioco, in modo sistematico, per curare le ferite di altri esseri umani, sconosciuti, in una piazza che diviene così il centro dell’universo.

Quando Lorena dice “non mi interessa andare in vacanza” allude al fatto che allontanandosi anche solo per un po’ dall’impegno in strada le parrebbe di abdicare da un compito urgente, necessario, impossibile da mettere in secondo piano. È in quelle sequenze del film che allo spettatore appare, nitido, il cortocircuito culturale che ci abitua, talvolta, a scindere dal quotidiano l’emergenza umanitaria legata ai fenomeni migratori, sospendendo o rimandando l’agire pratico, il mettersi in gioco in prima persona.

Arriva però il cinema, a ricordarcelo, come anche in The Milky Way (Luigi D’Alife, Ita 2020), che racconta la rotta sulle Alpi Occidentali e torna alla mente vedendo, ad ogni latitudine, i piedi martoriati di chi affronta cammini tortuosi alla ricerca di un futuro, e ragionando sull’equilibrio, talvolta paradossale, tra chi può permettersi lo svago, insomma la vacanza, e chi negli stessi luoghi lotta per la sopravvivenza, privato di diritti.

Interdipendenza, invece, significa equilibrio tra i nostri bisogni e quelli altrui, riportando all’essenza la relazione umana. Anche nelle piccole cose, come Lorena, che ha imparato ad accettare di essere chiamata “mom”, perché anche se all’inizio non le piaceva l’idea di essere vista come una madre dalle persone che cura, ha capito che il suo mettersi a disposizione degli altri, è un gesto di accoglienza che ricorda ai “pazienti” l’affetto materno, li fa sentire per un momento “a casa”, sospendendo il tempo e le distanze.

«A Trieste abbiamo scoperto modelli di solidarietà incredibile - racconta Sara Del Dot, giornalista e autrice del documentario - e se ci fossero repliche altrove di quello che accade in Piazza della Libertà sarebbe fantastico. Abbiamo incontrato persone, alcune molto giovani, davvero consapevoli di cosa è necessario per arrivare ad un’accoglienza e un’integrazione vera. Carlotta, dietro alla macchina da presa, è riuscita a cogliere in modo delicato e discreto i momenti di cura e si è occupata anche del montaggio. Avevamo già avuto modo di collaborare, ma questo è il nostro primo documentario insieme».

Indole votata al reportage e all’approfondimento di tematiche legate a diritti umani, ambiente e salute, Sara è un’attenta spettatrice di documentari e ci racconta di apprezzare, in ambito fiction, i film storici, come occasioni per mettere a fuoco i fenomeni. Ama, in particolare, quando nei titoli di coda compaiono fotografie o filmati d’archivio che mostrano i veri protagonisti delle vicende. Ad emozionarla è quell’attimo, insomma, dove il cinema si ricongiunge con la realtà. Un incontro che è sinonimo di verità, senza più confini. Un momento di presa di coscienza che ci rende più umani, un attimo che evidentemente è la scintilla alla base del percorso che compiuto per realizzare Confine | Umanità.