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1 Giugno 2021

Musica in un gioco di specchi.

Scritto da Redazione Openddb in 

Il biopic atipico su Ettore Giuradei

Come funziona la musica di Ettore Giuradei? Nasce da un travolgente processo artistico pronto a svelarsi, come in un gioco di specchi, nel biopic atipico dedicato al cantautore La nostalgia della condizione sconosciuta.

Si tratta del primo lungometraggio di Andrea Grasselli, regista che vanta una significativa ricerca poetica già apprezzata dalla critica (come nel caso de «Il vortice fuori» e delle altre opere realizzate con il collettivo Om Video, anch’esse presenti nel catalogo OpenDDB), sperimentazione che si intreccia con una sensibilità nei confronti dei temi sociali, come accade in Babel - Il giorno del giudizio, film interattivo co-diretto, tra gli altri, con Gianluca De Serio.

Giuradei riempie lo schermo con la sua fisicità a tratti dirompente e il suo sguardo ipnotico, pronto a traghettare gli spettatori dentro e fuori dal vortice dei propri tormenti artistici, mentre il film si snoda come un’indagine sulle diverse maschere della quotidianità, ispirata alle ricerche di Erving Goffman, in particolare al saggio La vita quotidiana come rappresentazione, e non manca uno sguardo all’introspezione d’impronta pirandelliana.

Il regista ha osservato e frequentato il cantautore per anni, per poi restituirne un ritratto d’artista che risulta universale, perché carico di quei tratti umani che rendono possibile l’immedesimazione per chiunque, se letti come tappe di un’autoanalisi.

“Se la domanda di partenza del film - spiega Grasselli - è “chi siamo?”, il percorso di Ettore ci conduce fino ad un “chi vogliamo essere?”.

Non solo l’individuazione del sottile equilibrio tra palco e vita privata: il film è un viaggio tra le centomila personalità di un artista, che volendo cancellare la propria parte artificiale apre il vaso di Pandora delle proprie identità possibili. Insomma, un invito nel turbinìo dell’io.

ETTORE

Andrea, il tuo film è un viaggio nellintimità di Giuradei, una sorta di tassonomia di un cantautore osservato mentre cambia pelle

Copre l’arco temporale tra il 2014 e il 2017. Poco dopo l’inizio delle riprese Ettore decise di abbandonare la musica, tornando poi sulle scene nel 2018 con i Dunk Italian band e poi con il nuovo album solista, Lucertola. Il documentario testimonia, dunque, il travaglio creativo dell’artista, la sua ricerca identitaria, proprio quando colto da una crisi.

Trovarsi al centro di una tempesta ed esercitare la pazienza dell’attesa, per catturarne tutte le sfumature, è stata una sfida difficile?

Soprattutto in termini di linguaggio (e l’ho considerata vinta superando la selezione al Torino Film Festival), ma affrontata con entusiasmo perché credo nell’innovazione linguistica: è nato, dunque, un film che non è legato solo al tema specifico che mette in campo, quanto ad una riflessione riguardo il documentario stesso come mezzo espressivo.

Che tipo di tappa segna, La nostalgia della condizione sconosciuta, nella tua filmografia?

Si tratta del lavoro più vicino alle mie corde che mi sia capitato di fare: è stato - non solo per Ettore, ma anche per me - un’occasione di compiere un’auto-analisi.

Quali legami trovi con gli altri tuoi documentari? Ad esempio anche Il vortice fuori e il recente Zenerù (che sta iniziando il suo percorso nei festival proprio in questi giorni) sono “ritratti”…

Sicuramente ci sono delle linee direttrici in comune nelle mie ricerche: il mio è un tentativo che va nella direzione di fare un racconto immersivo, accanto al protagonista, per far vivere allo spettatore non tanto i tratti autobiografici, ma una vera e propria immedesimazione, anzi di più: si deve proprio vivere “nella” persona ritratta in scena. Spesso gli spettatori dopo le proiezioni de La nostalgia della condizione sconosciuta, mi dicono: “Ad un certo punto mi sentivo Ettore. Insomma: non mi pareva soltanto di essere nella sua testa, ero davvero partecipe della sua esistenza”. Questi sono i feedback che mi rendono felice. Perché mi piace condurre chi guarda i miei film in un percorso di avvicinamento ai soggetti che racconto, trasportare il fruitore fino a farlo “diventare” il protagonista; tutto questo perché punto a far coincidere i tratti comuni degli esseri umani, le loro ambizioni, necessità, bisogni. Per riuscirci cerco di posizionare la macchina da presa molto vicino ai soggetti. E poi, per affinare la prospettiva, c’è il lavoro di montaggio.

Quello con Ettore è stato la ricerca più in profondità fatta finora, anche per i tempi lunghi di sviluppo.

Nei tuoi film, quasi sempre, i protagonisti si confrontano in modo esplicito con la natura. Ci spieghi questa scelta?

Cerco di leggere la contemporaneità anche attraverso questo desiderio dei miei soggetti di misurarsi con qualcosa di assoluto. È un tentativo di uscire da una visione stereotipata: Ettore, ad esempio, anche nel rapporto con la tecnologia tenta di svincolarsi dagli schemi, di non farsi irreggimentare. E cercare la propria essenza, per lui, talvolta, significa anche lottare con le forze della natura, trovare la linea di demarcazione, o il punto di contatto, tra essa e se stesso.

Mi piace pensare che la prospettiva del tuo cinema sia, infatti, un vero e proprio gioco di specchi nel quale “un uomo, in solitario, si confronta con se stesso e con la natura”. Di fatto è una solitudine relativa, che si riflette nella tua presenza, si relaziona con la tua capacità autoriale di esserci e sparire dietro la macchina da presa.

Sì, la chiave espressiva che prediligo è di certo quella intimistica. Ma in fondo è anche un modo di raccontare la nostra società, che va sempre di più verso l’individualismo, esplorando le scelte forti di alcuni soggetti. Nei miei film punto a non sottolineare, quindi, le relazioni tra individui. Tendo a eliminare i co-protagonisti: le persone che interagiscono con l’uomo che sto osservando devono essere delle meteore.

E se qualcuno entra in campo con lui, di solito, non ha un vero “ruolo”, insomma non porta avanti la narrazione, non è funzionale a punti cruciali della storia.

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Mi piace questa casa senza specchi, mi piace non vedermi”. Così canta Ettore Giuradei in Lucertola, canzone che dà il titolo al suo ultimo album e che prosegue con l’inciso "La forma ideale, l’immagine che conta, cambia ma… rimane sempre uguale".

Trasformazioni. Percezione di sé.
Pare l’eco, nostalgico, della relazione tra cantautore e regista.
Musica e cinema si specchiano. E la settima arte rende visibile l’invisibile.