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6 Gennaio 2018

L'arte del teatro oltre la frontiera

Scritto da Redazione Openddb in 

Analisi e riflessioni sul film "Alone we stand", di Fulvio Rifuggio e Alessia Del Bianco.

TEATRO A DISTANZA

Il regista Pietro Floridia si reca in Palestina per dirigere uno spettacolo teatrale con la compagnia cisgiordana dell’Al-Harah Theater di Beit Jala. Al momento di entrare nel paese Pietro verrà respinto alla frontiera, mettendo in seria discussione la fattibilità dello spettacolo. Per ovviare all’assenza del regista la compagnia decide di portare avanti la collaborazione via Skype, accettando tutte le difficoltà che allestire uno spettacolo a distanza porta con sé.

IL PUNTO DI VISTA FEMMINILE

Questo documentario, realizzato nell’ambito di un progetto di ricerca finanziato dalla Commessione europea, accende ancora una volta i riflettori sulla questione israelo-palestinese, assumendo questa volta il punto di vista delle donne. Lo spettacolo infatti vede protagonisti tre personaggi femminili, a fronte di un unico personaggio maschile, i quali a loro volta arrivano ad assumere fino a dodici identità differenti.

REALTA’ UTOPICA

La storia raccontata è sostanzialmente una parabola di libertà ed emancipazione, una messa in scena in cui le donne sono libere di fare quello che vogliono, di realizzare tutti i rispettivi sogni.
Quella lanciata da Floridia è chiaramente una provocazione, ciò che il regista vuole fare è mostrare una realtà distorta, diversa da quella vera, una sorta di mondo utopico in cui sussiste una reale parità tra i sessi. Sia nel mondo arabo che in quello palestinese infatti la situazione per le donne resta difficile, giuridicamente e umanamente sbilanciata verso la sfera maschile, dunque anche solo immaginare un mondo possibile in cui la situazione è diversa costituisce già di per sé un atto rivoluzionario.

Alone we Stand 1

UNA PRESA DI COSCIENZA NECESSARIA

Nell’opera quindi si fondono sia un aspetto di finzione che uno molto più documentaristico, attraverso il quale si cerca di generare una suggestione nella mente dello spettatore, rendendolo al contempo cosciente della situazione ma anche consapevole del suo possibile rovesciamento. Una scintilla di speranza incarnata in primo luogo dalle attrici protagoniste, donne palestinesi, che vivono un clima ostile ogni singolo giorno della propria vita.

UNA TENSIONE FUORICAMPO

La particolarità del film sta nel fatto che l’instabilità della regione non entra mai nella pellicola come ci si potrebbe aspettare, non si percepisce, sembra rimanere fuoricampo, quasi a significare che in un clima di cooperazione e di fermento culturale come quello instaurato dalla compagnia teatrale non c’è spazio per le dispute politiche, per le differenze ideologiche. Vi è solo un unico momento in cui la questione viene toccata, quando uno degli attori racconta del controllo documenti a cui dove sottoporsi tutte le volte che transita dai due checkpoint piazzati dalle Autorità sul percorso per il teatro. Il suo racconto non è però accompagnato dalle immagini, per cui lo spettatore può solo immaginare in maniera distaccata.

LE DIFFICOLTA’ E LA SPERANZA

Le uniche difficoltà effettivamente rappresentate sono legate alla direzione a distanza della pièce, continuamente interrotta da inconvenienti tecnici legati alla connessione Internet, ma soprattutto al fatto che il teatro è un’arte “dal vivo”, che va creata e consolidata sul momento, in presenza.
Alla fine il grande messaggio che passa è il valore collettivo dell’arte, la sua capacità di abbattare muri di qualunque tipo, reali o ideologici, ma anche di unire persone molto distanti tra loro, sia culturalmente che (in questo caso) fisicamente, unite dalla comune volontà di migliorare le cose in uno dei contesti più caldi al mondo.